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Siracusa, il divieto di sciopero in zona industriale (firmato dall’ex prefetto Pizzi) era illegittimo: il Cga dà ragione alla Cgil

Il Consiglio di giustizia amministrativa di fatto ribalta il tar che aveva considerato legittima l'ordinanza prefettizia sul "divieto di sciopero"

Dietrofront: il prefetto di Siracusa Luigi Pizzi (oggi in pensione) violò la Costituzione quando, nel 2019, emanò l’ordinanza che vietava assembramenti e riunioni davanti alle portinerie degli stabilimenti della zona industriale. A dirlo il Consiglio di giustizia amministrativa, che di fatto sconfessa il tribunale di Catania che in primo grado aveva considerato legittima l’ordinanza prefettizia sinteticamente chiamata “divieto di sciopero”. Accolto, quindi, il ricorso della Cgil contro la prefettura di Siracusa.

Nel 2019 (una vita fa, visto quanto accaduto) si è assistito a volantinaggi, mobilitazioni, proteste davanti la prefettura in piazza Archimede e il via ai ricorso in sede di giustizia amministrativa. Ad accendere i riflettori sul documento dell’ex Prefetto Luigi Pizzi ci pensarono pure Le Iene con un servizio di Silvio Schembri. Davanti alle portinerie, insomma, era vietata la protesta. E questa era (è) una delle modalità cui si è fatto più ricorso negli ultimi anni, anche senza il supporto sindacale, per farsi sentire dalle aziende creando problemi sul traffico e per l’accesso alla sede di lavoro.

Da maggio a settembre 2019 era stato vietato l’assembramento per persone e auto in alcuni punti ben individuati della zona industriale di Siracusa (in particolare presso gli stabilimenti Isab/Lukoil, Sasol, Sonatrach e Versalis) attraverso un provvedimento “extra ordinem” emesso dal Prefetto a a seguito delle manifestazioni dell’8 e 9 maggio 2019, con conseguenti difficoltà e rallentamenti all’accesso da parte sia dei dipendenti degli stessi stabilimenti, sia dei mezzi pesanti che lì si recano periodicamente per i rifornimenti di carburante, sia per gli abitanti della zona. Le manifestazioni ebbero inoltre ripercussioni negative sul traffico veicolare, originando lunghe file di mezzi pesanti e conseguenti disagi e ritardi nelle forniture di carburante ai porti e aeroporti della Sicilia Orientale che si approvvigionano in quelle raffinerie.

Nonostante l’attività di mediazione svolta sul posto dai rappresentanti delle Forze di Polizia e nelle competenti sedi istituzionali, la protesta continuò ugualmente. Per i giudici amministrativi di primo grado, l’ordinanza del prefetto che ha fatto tanto discutere, appariva “rispettosa dei limiti individuati dalla Corte costituzionale” in quanto “adeguatamente motivata”. 

I giudici in appello invece osservano che “alla libertà di riunione garantita dalla Costituzione all’art. 17 (i cittadini hanno diritto di riunirsi pacificamente e senz’armi, ndr), non possono apportarsi limiti né tramite legge né tantomeno tramite esercizio di potere amministrativo“, come è avvenuto nel caso con il provvedimento prefettizio, che sarebbe, quindi, contrario alla Costituzione “poiché espressione di un controllo amministrativo preventivo e astratto esercitato sul diritto di libera riunione, per una durata temporale consistente, in maniera del tutto avulsa da ogni valutazione circa le modalità concrete ed effettive attraverso le quali la riunione è stata programmata, e in modo da superare gli stessi limiti con i quali la Costituzione ha ristretto il potere di ingerenza della pubblica amministrazione in materia (potere che si estrinseca solo nella necessità di pretendere un congruo preavviso, e nella possibilità di vietare la riunione solo per comprovati motivi di sicurezza ed incolumità pubblica)”. Insomma, il provvedimento si configura come un controllo amministrativo che non è solo preventivo ma anche astratto sul diritto costituzionale di libera riunione vietata, in maniera totale e senza condizioni fino al 30 settembre 2019, in determinati luoghi pubblici antistanti stabilimenti industriali.

Per la Costituzione, chi vuole svolgere una riunione in luogo pubblico non deve dotarsi di alcun permesso o autorizzazione, né deve subire divieti astrattamente posti in anticipo, ma deve solo dare un preavviso. E, solo dopo questo preavviso (ma anche nel caso in cui esso sia stato omesso) l’autorità amministrativa valuta i rischi e in caso può vietarla o imporre prescrizioni per il suo svolgimento, ma proporzionate, motivate, comprovate e solo attinenti a sicurezza (integrità dei diritti delle persone) o incolumità .

In quel caso, al di là di sopportabili disagi, per la circolazione, per gli abitanti del quartiere, per alcune segnalazioni dell’Ambasciatore russo e del Console generale russo entrambe relative al “blocco illecito del lavoro dello stabilimento Isab” non sembra sussistessero “comprovatamente” fatti gravi, tali da giustificare il provvedimento. A far discutere, praticamente tutta Italia, fu infatti “quella” lettera da Mosca, da cui sarebbe partito tutto: quella dell’ambasciatore russo in Italia, Sergey Razov, che avrebbe chiesto l’intercessione dell’allora ministro degli Interni, Matteo Salvini, per evitare nuovi blocchi fuori dagli impianti che in passato aveva già causato danni per milioni di euro alla Lukoil.

L’ex prefetto Pizzi, quindi, tra le alternative possibili aveva scelto “il mezzo che comporta il maggior sacrificio per i destinatari colpiti dalla misura – si legge nel provvedimento – ma tenuto conto del canone del rispetto del giusto equilibrio tra vari interessi coinvolti nella fattispecie concreta, dalle acquisizioni istruttorie sottese al provvedimento e trasfuse nella motivazione del medesimo non sembra che tale ultimo parametro sia stato rispettato neppure sotto il profilo della protrazione nel tempo della misura (“agganciata” alla valutazione probabilistica della “ presumibile durata” della vertenza , quando per il vero, avrebbe in teoria potuto avere una durata inferiore, in quanto suscettibile di eventuale reiterazione, ricorrendone le compravate condizioni)”.

Ricorso accolto, lo sciopero è consentito e il prefetto si sbagliava.


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