Liolà rappresenta la vita, il canto, la poesia, il futile ancorché necessario piacere. La sua storia parte da un capitolo de “Il fu Mattia Pascal” per poi diventare una commedia con canzoni che si ispira anche a un’altra novella di Pirandello “La mosca”, ai frammenti delle due opere, parte la drammaturgia di questa nuova messa in scena di Liolà che, nell’adattamento di Moni Ovadia, Mario Incudine e Paride Benassai approda martedì 7 (alle 21) e mercoledì 8 (alle 17,30) al Teatro Massimo Città di Siracusa.
Diretta da Moni Ovadia e Mario Incudine (che cura anche le scene ed è autore delle musiche), l’opera – prodotta dal Teatro della Città – mescola prosa e musica in una grande favola più vicina al mondo dell’opera popolare e si sviluppa da queste pagine, dalla letteratura, dal romanzo. A impreziosire il racconto e la messinscena in musica, interviene il raffinato lavoro del coreografo Dario La Ferla che cura movimenti e coreografie, nonché la direzione musicale di Antonio Vasta. A completare le suggestioni della proposta, ci sono i costumi ideati e realizzati da Elisa Savi in collaborazione con Stella Filippone per i decori e Cristina Protti per le maschere e le luci di Giuseppe Spicuglia.
“Liolà è l’amore e la morte, il sole e la luna, il canto ed il silenzio, il sangue e la ferita – dicono Mario Incudine e Moni Ovadia -. Lui incarna in sé il Don Giovanni di Mozart e il Dioniso della mitologia, governato dall’aria che fa ruotare il suo cervello come un “firrialoru”, un mulinello. Zio Simone, suo contraltare dai toni grotteschi, personaggio cinico e senza scrupoli, attorno al quale ruota la vicenda dei figli di Tuzza e Mita, tratteggia la figura del pavido e viscido che pur di avere un erede a cui lasciare la roba, è disposto a qualsiasi compromesso”.
Protagonisti dello spettacolo sono Mario Incudine nei panni di Liolà, Paride Benassai che interpreta Pauluzzu ‘u fuoddi, Rori Quattrocchi nel ruolo di la Zà Ninfa, Olivia Spigarelli in quello de La Zà Croce, Angelo Tosto in quelli di zio Simone. A loro si aggiungono Aurora Cimino (Tuzza), Graziana Lo Brutto (Mita), Lorenza Denaro (Ciuzza), Federica Gurrieri (Nedda), Irasema Carpinteri (Mela), Rosaria Salvatico (Luzza). E poi, ancora, i musici Antonio Vasta (fisarmonica e zampogna), Denis Marino (chitarre), mentre le popolane sono interpretate da Valentina Caleca, Emilie Beltrami, Emanuela Ucciardo, Chiara Spicuglia, Flavia Papa.
“I personaggi che colorano la storia – continuano i due artisti -, ognuno con un timbro unico a sottolinearne il carattere, sono come gli strumenti preziosi e insostituibili di un’orchestra sinfonica, solfeggiano la parola ed hanno tutti una precisa collocazione nella fonosfera dominata dall’azione corale. Il gesto diventa coreografia e movimento, tutto si trasfigura in un non luogo e non tempo in cui ci si muove dentro costumi bidimensionali a volere sottolineare la mancanza di profondità d’animo dei personaggi. Testardi, attaccati alle ricchezze materiali, relegati in una grettezza che li rende meschini. I figli, tanto sospirati nel testo, non interessano davvero a nessuno in questa vicenda, sono solo un pretesto per raggiungere scopi poco nobili: mettere le mani sulla roba, portare a segno una vendetta, dare continuazione al proprio nome. L’unica chioccia si rivelerà la zia Ninfa, madre di Liolà, che accoglie bonariamente i frutti di “fora via” delle varie svolazzate del figlio e alla quale è affidato il senso più profondo della maternità. E poi c’è Paoluzzu, il pazzo del paese, un personaggio di nostra invenzione: è lui che nella sua pirandelliana follia si dimostra molto più lucido di tutti gli altri, a muovere la vicenda, a scandirne i tempi, burattinaio che ben padroneggia le azioni dei pupi e deus ex machina che risolve infine la tragedia di questo dramma satiresco”.
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